
http://www.youtube.com/watch?v=sbgDhItTWDo&feature=youtu.be
Si è svolta ieri (12/10/2013) a Roma la grande manifestazione ” LA VIA MAESTRA” Uno stralcio dell’intervento di Don Luigi Ciotti tutto da “gustare”
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Si è svolta ieri (12/10/2013) a Roma la grande manifestazione ” LA VIA MAESTRA” Uno stralcio dell’intervento di Don Luigi Ciotti tutto da “gustare”
Secondo la Procura di Caltanissetta sarebbe Giovanni Aiello, un ex agente ora in pensione, l’uomo dal volto deformato che sarebbe stato presente a Capaci e avrebbe avuto un ruolo in altri delitti rimasti irrisolti. Con in tasca la tessera dei servizi segreti
di Giuseppe Pipitone | 8 ottobre 2013
Ha percorso come un’ombra tutta la Palermo delle stragi, per poi scomparire definitivamente, lasciando traccia di sé soltanto dentro ai verbali di collaboratori e testimoni. È stato indicato come un fantasma, un uomo taciturno con la faccia butterata, orribile, mostruosa, sempre presente quando c’era una strage da fare, un eccidio in cui si dovevano coprire le tracce per sottrarre dalla scena ogni possibile indizio rivelatore. Adesso “Faccia da Mostro“, il killer con tesserino dei servizi in tasca, che sullo sfondo di ogni strage agiva da uomo cerniera tra Cosa Nostra e Stato, sembra aver recuperato un nome, dopo essere quasi svanito dalle inchieste. Faccia da Mostro invece esiste, non è un’invenzione, e la sua identità sarebbe quella di un ex dirigente di polizia in pensione, con il volto sfigurato a causa dell’accidentale esplosione di un’arma da fuoco: il suo nome, secondo la Procura di Caltanissetta, è Giovanni Aiello.
Identità già nota alla Procura, quella di Aiello, che lo aveva iscritto nel registro degli indagati, per poi chiederne ed ottenerne l’archiviazione nel dicembre del 2012. Adesso però sono arrivati nuovi elementi e la procura nissena ha nuovamente stretto il cerchio sul nome di Aiello, che è ritornato al centro delle indagini dei pm guidati da Sergio Lari. Pochi mesi fa, a fare il nome di Aiello davanti ai colleghi di via Giulia, era stato il procuratore aggiunto della Direzione Nazionale Antimafia Gianfranco Donadio, incaricato dall’ex procuratore nazionale Piero Grasso di seguire le indagini sulle stragi. Donadio ha dunque recuperato alcune testimonianze di collaboratori di giustizia, che indicavano in Aiello l’uomo con la faccia butterata operativo a cavallo delle stragi che insanguinarono l’Italia tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90.
Il primo a fare il nome di Aiello era stato il pentito Vito Lo Forte, la cui testimonianza però è ancora oggi tutta da riscontrare. A parlare di Faccia da Mostro era stato anche Luigi Ilardo, il boss nisseno infiltrato dai Carabinieri al seguito di Bernardo Provenzano e poi misteriosamente ucciso nel 1996. “Noi – disse Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio – sapevamo che c’era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino”. Ed è proprio a Villagrazia di Carini che Faccia da Mostro fa per la prima volta il suo ingresso sulla scena: pochi giorni prima dell’omicidio del poliziotto Nino Agostino, il il 5 agosto del 1990, un uomo con il volto deturpato andò a bussare a casa sua: “Era un uomo con i capelli biondi, dal viso orribilmente butterato” ha raccontato Vincenzo Agostino, padre del poliziotto ucciso, di cui oggi non si conoscono ancora gli assassini.
Tracce di Faccia da Mostro però si trovano anche oltre lo Stretto: l’ultimo collaboratore a fare il nome del misterioso killer di Stato è infatti un calabrese affiliato alla ‘Ndrangheta, si chiama Nino Lo Giudice, è soprannominato il Nano, e fino a pochi mesi fa era un collaboratore di giustizia. Prima di ritrattare quanto raccontato, accusando i magistrati che lo avevano interrogato di “drogare” le sue dichiarazioni, il Nano aveva fatto cenno a Faccia da Mostro, individuandolo in Aiello, e aggiungendo che “agiva sempre con una donna, una tale Antonella: tutti e due facevano parte a servizi deviati dello Stato e la donna era stata ad Alghero in una base militare dove la fecero addestrare per commettere attentati e omicidi”. Nel giugno scorso però Lo Giudice ha ritrattato le sue dichiarazioni, rendendosi latitante.
C’è un altro uomo che però indica in una donna la partner dell’orrore di Faccia da Mostro: è Giuseppe Maria Di Giacomo, esperto killer del clan catanese dei Laudani. Piste, ipotesi, spifferi, testimonianze ancora oggi tutte al vaglio degli inquirenti, che in queste ore, oltre ad indagare su Aiello, lavorano per capire chi sarebbe la tale Antonella citata da Lo Giudice, addestrata dai servizi per diventare una sorta di killer di Stato.
Agli atti della procura di Caltanissetta però adesso c’è anche un altro verbale che allarga il quadro delle indagini: quello del collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera. L’uomo che il 23 maggio del 1992 avvisò i killer di Giovanni Falcone dell’arrivo delle auto blindate dall’aeroporto, ha fatto per la prima volta cenno ad una presenza estranea a Cosa Nostra nelle fasi preparatorie del botto di Capaci: quando i boss si erano riuniti per collegare le singole cariche d’esplosivo che avrebbero ucciso Falcone, tra loro c’era anche un uomo estraneo all’organizzazione, sconosciuto al livello operativo di Cosa Nostra che parlava “soltanto a bassa voce”.
Dichiarazioni che per la prima volta suggeriscono una compartecipazione estranea a Cosa Nostra per l’assassinio di Falcone, ma operativa nelle fasi finali dell’attentato, e che somigliano molto a quelle rese da Gaspare Spatuzza sull’eliminazione di Paolo Borsellino, avvenuta 57 giorni dopo la strage di Capaci. “Mentre veniva imbottita di esplosivo la Fiat 126 nel garage tra noi c’era uno elegante, biondino, mai visto prima, parlava con Gaetano Scotto” ha raccontato il collaboratore ricostruendo la fase preparatoria della strage di via d’Amelio. L’interrogativo è inevitabile: l’uomo che partecipa con i boss alla preparazione della strage di via d’Amelio è lo stesso notato da La Barbera nei giorni precedenti al botto di Capaci ? E a che titolo partecipa alla strage? È quell’uomo è sempre Faccia da Mostro?
C’è un piccolo sacchetto di carta, di quelli utilizzati dalle farmacie, che viene ritrovato subito dopo la strage di Capaci ad appena 63 metri di distanza dall’enorme cratere che squarcia l’autostrada. Sopra il sacchetto, come se fossero stati spostati dall’esplosione, vengono ritrovati un guanto di lattice, del mastice adesivo e una torcia: tutta roba probabilmente utilizzata nelle fasi preparatorie della strage, quando gli attentatori riempiono il ventre dell’autostrada con fusti pieni d’esplosivo trascinati sotto l’asfalto grazie ad alcuni skateboard.
All’epoca della strage era impossibile rilevare le impronte digitali dal guanto di lattice: oggi, però, la tecnologia permette di ricostruirle anche da una particella di impronta papillare. È a questo che stanno lavorando i consulenti nominati dalla Caltanissetta: sul guanto di lattice è infatti stata riscontrata la presenza di frammenti di Dna, che già dopo le prime analisi sembra avere una struttura abbastanza rara, non troppo diffusa. L’uomo che usò quel guanto più di vent’anni fa ha, quindi, lasciato una firma indelebile sul luogo della strage: per capire se si tratta di un killer ancora sconosciuto bisognerà solo aspettare la fine degli accertamenti, quando quel frammento di Dna sarà paragonato a quello dei boss che facevano parte del commando che uccise Falcone. E tra loro potrebbe esserci stato sempre lui: l’uomo delle stragi impunite, con un tesserino dei servizi in tasca e una faccia orribile, da mostro.
“Minotauro” e “Colpo di Coda”, mano pesante del pg.
Due durissimi colpi alla ’ndrangheta dislocata in Piemonte sono stati inflitti ieri mattina nelle aule del tribunale di Torino nell’ambito dei procedimenti Minotauro e Colpo di Coda.
La maxi inchiesta dei carabinieri e della Dda, culminata nella notte dell’8 giugno 2011 con 153 arresti, è arrivata all’appello con rito abbreviato e le richieste di condanna ricalcano le sentenze di primo grado. L’operazione invece che ha interessato i «locali» di Chivasso e Livorno Ferraris è giunta alle prime, pesantissime, condanne coi riti cosiddetti speciali.
Quattrocento anni di carcere. Li ha chiesti ieri il pg Elena Daloiso nel processo di appello Minotauro che vede sul banco degli imputati 62 persone, quasi tutte accusate di 416 bis. È la conferma dell’impostazione dei pm (Sparagna, Abbatecola, Arnaldi di Balme, Tibone, Castellani e Malagnino) che misero in piedi il grattacielo di contestazioni agli affiliati dei locali di ’ndrangheta, e delle condanne di primo grado.
Nelle maglie di questa porzione di processo è finita soprattutto la struttura denominata «Crimine», organismo deputato alle azioni violente (estorsioni, omicidi, bombe) della mala calabrese che annovera tra i suoi ranghi personaggi di indubbio spessore malavitoso: dai fratelli Adolfo e Cosimo Crea (rispettivamente 12 e 2 mesi e 10 anni e 10 mesi) e ai loro sodali più stretti.
Ci sono anche però personaggi di elevata caratura criminale come Giuseppe Fazari, Antonio Agresta, Bruno Iaria (13 anni e sei mesi) e Giovanni Iaria (deceduto in carcere a febbraio 2013) e numerosi capi di locali distaccati in provincia. Solo per alcuni di loro – tre su un totale di 62 imputati – il pg ha chiesto una lieve riduzione di pena.
La coda del Minotauro
L’impianto accusatorio ha retto bene anche nell’abbreviato di Colpo di Coda, appendice dell’operazione Minotauro che ha scoperchiato affari e strutture dei due locali di Chivasso e Livorno Ferraris. Le manette erano scattate esattamente un anno fa (22 ottobre 2012). In carcere erano finite 19 persone. Ieri le prime maxi condanne: Salvatore Cavallaro 10 anni e otto mesi, Antonino Fotia 6 anni, Beniamino Gallone 7 anni e 4 mesi, Gaetano Lo Monaco 5 anni, Mario Tonino Maiolo 6 anni e 8 mesi, Pasquale Maiolo 10 anni e 8 mesi. Due imputati hanno patteggiato, gli undici rimanenti sono stati rinviati a giudizio e si preparano ad affrontare il processo con rito ordinario.
Ottimismo in Procura
È chiaro che alla luce di queste ultime novità processuali, ci sia grande soddisfazione in Procura. E – allo stesso tempo – cresca l’ottimismo per l’appello del procedimento Alba Chiara, incentrato sulla presenza della ’ndrangheta nel Basso Piemonte, che si è chiuso mesi fa con un coro di assoluzioni. La Procura vuole riaprire la partita. E già la Corte d’Appello, in un ricorso contro alcuni sequestri di beni di imputati in quel procedimento, ha ritenuto che fossero validi e ci fossero tutti gli estremi dell’associazione mafiosa.
Lunedì 7 ottobre
h.21.00, Fabbrica delle E, Corso Trapani 91/B, Torino
Assemblea pubblica con Don Luigi Ciotti e Gustavo Zagrebelsky in preparazione alla manifestazione di Roma del 12 ottobre in difesa e per l’applicazione della Costituzione. A Roma, il 12, in Piazza della Repubblica dalle ore 14:00 si terrà una manifestazione nazionale per difendere la Costituzione e rivendicarne l’applicazione. Come è scritto nell’appello “La difesa della Costituzione è innanzitutto la promozione di un’idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente. […] Non è la difesa d’un passato che non può ritornare, ma un programma per un futuro da costruire in Italia e in Europa.”
Per maggiori informazioni: http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/8657
Mille cittadini torinesi aspettano una risposta. Un sì o un no, nient’altro.
Vogliamo un luogo che ricordi a Torino Mauro Rostagno, che proprio in questa città è nato.
Pretendiamo una risposta perché siamo orgogliosi della sua storia.
Di seguito tutte le istruzioni e il testo del mailbombing pensato per incentivare l’Amministrazione della Città di Torino a rispondere ed agire, soprattutto
ISTRUZIONI DEL MAILBOMBING
Amici, come sapete, in occasione del 25esimo anniversario della morte di Mauro Rostagno, abbiamo deciso di intitolare il ponte di via Livorno a Torino alla sua memoria.
Un gesto simbolico per spingere l’amministrazione a dare una risposta alla proposta di intitolare un luogo alla sua figura.
Ma dal Comune di Torino nessuna risposta. E’ dal 2008 che, attraverso una raccolta firme, chiediamo un riconoscimento a Mauro Rostagno, nella città in cui è nato.
Visto l’immobilismo dell’Amministrazione, abbiamo deciso di procedere con un “mailbombing”. Ovvero: vi chiediamo di inoltrare il testo sotto riportato ai seguenti indirizzi
segreteria.sindaco@comune.torino.it
presidente.consigliocomunale@comune.torino.it
vicepresidente.levi@comune.torino.it
vicepresidente.magliano@comune.torino.it
presidente.consigliocomunale@comune.torino.it
italiadeivalori@comune.torino.it
misto-maggioranza@comune.torino.it
gruppomoderati@comune.torino.it
gruppopartitodemocratico@comune.torino.it
gruppo.sel@comune.torino.it
alcentroconscanderebech@comune.torino.it
alleanzaperlacitta@comune.torino.it
fratelliditalia@comune.torino.it
leganord@comune.torino.it
progettazione@comune.torino.it
movimento5stelle@comune.torino.it
pdl@comune.torino.it
torinolibera@comune.torino.it
E’ la metodologia pensata per spronare l’Amministrazione ad agire.
Inviate questa mail, una volta al giorno, con il seguente oggetto: La Città dedichi un luogo a Mauro Rostagno”.
Possiamo farcela, ma dobbiamo essere costanti nell’invio. Prima o poi si accorgeranno di noi…
ECCO IL TESTO DEL MAILBOMBING!
E’ nato a Torino nel 1942.
E’ morto a Trapani per mano mafiosa nel 1988.
Vorrei che la sua città di nascita si ricordasse di lui.
Qui a Torino tutto è iniziato. Qui vive oggi tutta la sua famiglia, anche suo nipote Pietro che non ha mai conosciuto.
PONTE MAURO ROSTAGNO: Perché no?
(firma)
per Mauro Rostagno, un cittadino torinese (scomodo?)
P.S.
Nel 2008 più di mille cittadini torinesi hanno messo la loro firma in calce a una petizione che chiedeva un luogo intitolato a Mauro Rostagno: che ne è di quella volontà popolare?”
Per sapere la storia di Mauro Rostagno: http://it.wikipedia.org/wiki/Mauro_Rostagno
Lunedì 15 luglio Emergency ha aperto un Poliambulatorio a Polistena, in provincia di Reggio Calabria. Il Poliambulatorio, il terzo di Emergency in Italia, nasce in collaborazione con Libera, la cooperativa Valle del Marro, la parrocchia Santa Marina Vergine e la Fondazione “Il cuore si scioglie” di Unicoop Firenze che in città stanno realizzando un polo culturale contro le mafie in un palazzo confiscato alla ‘ndrangheta, assegnato alla Parrocchia Santa Marina Vergine e ristrutturato grazie a un bando della Fondazione con il Sud.
Presso il Poliambulatorio di Polistena i medici e gli infermieri di Emergency offrono cure gratuite alle persone indigenti e ai migranti. Tre mediatori culturali svolgono attività di consulenza e orientamento socio-sanitario, si occupano delle pratiche per il rilascio del codice Stp (Straniero temporaneamente presente, che garantisce anche agli stranieri non regolari l’accesso al Servizio sanitario pubblico) e accompagnano i pazienti che necessitino di esami o visite presso le strutture pubbliche.
Emergency ha iniziato a lavorare nella zona nel 2011, con un ambulatorio mobile che prestava assistenza soprattutto ai migranti impegnati come braccianti nelle campagne della Piana di Gioia Tauro. Anche tra i pazienti del Poliambulatorio sono molti i braccianti agricoli: dolori muscolo scheletrici, dermatiti e patologie gastrointestinali sono le patologie ricorrenti, tutte determinate dalle difficili condizioni di vita e di lavoro.
Ecco il primo paziente del nostro nuovo Poliambulatorio di Polistena, in provincia di Reggio Calabria.
È un bracciante che lavora nei campi della Piana di Gioia Tauro, come molti dei pazienti che abbiamo curato in questa zona. Ai migranti e alle persone indigenti questo Poliambulatorio offre cure gratuite, orientamento socio-sanitario per il rilascio del codice Stp (Straniero temporaneamente presente, che garantisce anche agli stranieri non regolari l’accesso al Servizio sanitario pubblico) e l’accompagnamento in caso di bisogno di esami o visite presso le strutture pubbliche.
Il Poliambulatorio si trova in un palazzo confiscato alla ‘ndrangheta che sta diventando un polo culturale contro le mafie grazie al lavoro di Libera, la parrocchia Santa Marina Vergine, la cooperativa Valle del Marro, Fondazione “Il cuore si scioglie” di Unicoop Firenze e al contributo di Fondazione con il Sud.
Siamo arrivati a Polistena e nella Piana di Gioia Tauro due anni fa, con un ambulatorio mobile. Ora, con questa nuova struttura, abbiamo deciso di fermarci stabilmente: per rispondere a un bisogno del territorio, per rispettare il diritto – fondamentale – a essere curati, bene e gratis.
E’ il pm di punta nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Una fonte che si muove tra i servizi e Cosa Nostra ha avvertito che la sua vita è in pericolo. E la scorta non ha i mezzi per difenderlo.
Una relazione di servizio riservata, consegnata al reparto scorte dell’Arma dei carabinieri, avverte: le misure di protezione per Nino Di Matteo, il pm di punta del processo sulla trattativa Stato-mafia, hanno delle falle che mettono a rischio la sicurezza del magistrato e della sua scorta, tutta composta da carabinieri.L’allarme per l’incolumità del magistrato di Palermo è alto da tempo, ma è diventato altissimo dagli inizi di aprile, dopo una lettera anonima che allertava Di Matteo: è in fase organizzativa un attentato simile a quello costato la vita a Paolo Borsellino il 19 luglio del 1992. Stavolta, nel mirino di Cosa nostra “e degli amici romani di Matteo” (il superlatitante di Castelvetrano, Messina Denaro, ndr), ci sono Di Matteo e i carabinieri della sua scorta, spiati nei loro movimenti per più di un mese dai “picciotti” della mafia.
La relazione, consegnata al reparto dell’Arma che si occupa della tutela delle “personalità a rischio”, ha aggiornato ad una decina di giorni fa lo stato delle cose. I carabinieri che scortano il magistrato non hanno armi adeguate per rispondere al progettato attacco di cui parla l’anonimo, un personaggio che sembra graviti in quell’area indefinita tra servizi segreti infedeli e mafiosi. E non sono neanche dotati di un’apparecchiatura sofisticata ma efficace, il “bomb jammer”, una valigetta scanner che neutralizza i telecomandi utilizzati per innescare ordigni esplosivi. Una misura di difesa preventiva su cui ha puntato l’attenzione, pochi giorni fa, anche Salvatore Borsellino, l’ingegnere fratello del magistrato Paolo, e fondatore del movimento “Agende Rosse” che si batte perché la sicurezza di Di Matteo non venga affrontata in modo “burocratico”.
L’anonimo che ha scritto segnalando la decisione di Cosa nostra di organizzare un attentato contro Di Matteo e “un magistrato palermitano che lavora a Caltanissetta”, ha già dimostrato di avere informazioni di prima mano: ha segnalato ai pm della Procura antimafia di Palermo il caso della sparizione di documenti dalla borsa del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa subito dopo il suo omicidio. Una circostanza che è stata riscontrata e si è rivelata esatta.
Un grido d’allarme che non può passare inosservato. Tra i carabinieri addetti alla protezione di Di Matteo, tra l’altro, ce n’è uno che nei giorni scorsi ha denunciato in un esposto di essere stato bloccato dai suoi superiori nelle indagini che avrebbero potuto portare alla cattura di Matteo Messina Denaro: si chiama Saverio Masi ed è il caposcorta del magistrato. Masi aveva visto a Bagheria, nel 2004, il boss di Castelvetrano avvicinarsi ad una villetta poi risultata di proprietà di un professionista in qualche modo legato al boss Giuseppe Guttadauro, imparentato con Messina Denaro.
In un esposto diretto alla procura di Palermo, Masi ha raccontato che i suoi superiori gli dissero: “Non hai capito niente allora? Lo vuoi capire o no che ti devi fermare? Hai finito di fare il finto coglione?”. Stessa linea subita anni prima quando Masi, era il 2001, individuò un contatore dell’Enel, all’indomani della cattura del boss Benedetto Spera a Belmonte Mezzagno, che forniva elettricità ad un casolare apparentemente disabitato e dove poi si è scoperto era nascosto Bernardo Provenzano. Giorni fa un altro carabiniere, il luogotenente Salvatore Fiducia, ha messo a verbale la sua denuncia: anche lui è stato ostacolato dai superiori nelle indagini che avrebbero potuto portare a “Binnu” Provenzano, l’allora latitante capo di Cosa nostra propenso alla linea del “dialogo” con lo Stato.
Presentazione del libro Le fondamenta della città
Giovedì 30 maggio
h 18.00 – 20.00, Libreria La Torre di Abele, via Pietro Micca 22, Torino
Giuseppe Gennari, magistrato esperto in criminalità organizzata, spiega nel suo libro, edito Mondandori, come il Nord Italia abbia aperto le porte alla ‘ndrangheta”. Per la presentazione interverranno con l’autore Gian Carlo Caselli e Gianni Barbacetto.
Festa dei Vicini nelle comunità di Acmos
Sabato 1 giugno
In tutte le Comunità di Acmos
Le Comunità di Acmos, impegnate in progetti di cohousing, festeggeranno la Festa dei Vicini. Manifestazione organizzata a livello europeo, quest’anno sarà dedicata alla lotta allo spreco alimentare. I ragazzi delle Comunità organizzeranno eventi con i propri vicini.
Conclusione della Campagna per la Cittadinanza dei GEC
Domenica 2 giugno
h 9.00, Via Martini 4/B, Casa Umanista, Torino
Intitolata “Occupa la Repubblica”, la campagna per la cittadinanza di Acmos si conclude. Dedicata alla lotta all’astensionismo, i giovani dei GEC di Acmos si ritrovano per portare in plenaria i risultati del percorso di approfondimento e discussione portati avanti nel corso dell’anno.
Domenica 2 giugno
h 12.00, piazza Vittorio, Torino
Un pranzo gratuito per 3000 persone realizzato con gli “scarti” derivanti dal commercio alimentare della Provincia di Torino. Una giornata dedicata al cibo, alla lotta agli sprechi, al dialogo, ma anche un’occasione per stare insieme e per acquistare prodotti locali e di Libera Terra.L’iniziativa è inserita nel calendario di Smart City days e organizzata da Risteco in collaborazione con: Cooperativa Nanà, Last Minute Market, Coldiretti, Festival Cinemambiente. Auchan, Smat, Amiat, IREN Energia, Istituto Zooprofillattico, Sotral, Camst, Compass Group, Agrocompany, Ecozema.
Si è aperto il dibattito di uno dei casi giudiziari più complessi e contraddittori. Dieci gli imputati: i capimafia Riina, Bagarella, Cinà, gli ex ufficiali del Ros Subranni, Mori e De Donno, il pentito Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino. Poi ex politici come Dell’Utri e l’ex presidente del Senato che ribadisce: “Non posso stare in aula con i boss”. Il pm Di Matteo: “Lo Stato non può nascondere le sue responsabilità”
Si è aperto questa mattina il processo per la trattativa Stato-mafia davanti alla Corte di assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto. Giudice a latere è Stefani Brambille. L’accusa è rappresentata in aula dal procuratore Francesco Messineo, dall’aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Tartaglia, Di Matteo e Del Bene. Dopo la presentazione delle richieste di costituzione delle parti civili, il processo è stato rinviato a venerdì. Lo ha deciso il presidente Montalto accogliendo una richiesta del pm, che ha fatto presente di aver bisogno di un termine prima di esprimere il proprio parere sulle domande di costituzione di parte civile, dato l’alto numero delle istanze.
Hanno chiesto di costituirsi parte civile il Comune e la Provincia di Firenze e la Regione Toscana. Alle dieci parti civili già ammesse potrebbero aggiungersi quindi altri soggetti processuali se i giudici accogliessero le istanze. Stessa richiesta è stata fatta dai familiari dell’eurodeputato Salvo Lima, ucciso dalla mafia nel 1992, dal comitato Addiopizzo, l’associazione dei familiari delle vittime della strage dei Georgofili, l’associazione Carlo Catena, l’associazione antiracket Libere Terre, l’associazione nazionale Testimoni di Giustizia, Libera, l’associazione antimafia Riferimenti, l’associazione nazionale Giuristi Democratici e il Comune di Campofelice di Roccella.
Grasso. “Sono testimone, non posso che dichiarare al processo quello che so”. Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano un commento a quanto sta accadendo a Palermo con l’apertura del processo sulla trattativa Stato-mafia. Grasso oggi è a Firenze per il 20/o anniversario della strage di via dei Georgofili.
Si sino presentati in aula, tra gli imputati, l’ex ministro Nicola Mancino, l’ex comandante del Ros Antonio Subranni e Massimo Ciancimino.
L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino saluta l’ex generale Antonio Subranni (ansa)
Con loro, il gup Piergiorgio Morosini lo scorso 7 marzo ha rinviato a giudizio per “attentato mediante violenza o minaccia a un corpo politico, giudiziario o amministrativo dello Stato, aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra”, i boss Totò Riina, Leoluca Bagarella e Nino Cinà, l’ex pentito Giovanni Brusca, l’ex generale del Ros Mario Mori, l’ex colonnello Giuseppe De Donno e l’ex senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. Riina e gli altri tre mafiosi sono stati collegati in videoconferenza con l’aula bunker.
Mancino risponde solo di falsa testimonianza e ha ribadito che il suo legale chiede lo stralcio della sua posizione: “Non posso stare nello stesso processo in cui c’è la mafia”, ha detto l’ex ministro prima dell’inizio dell’udienza. Ma la Procura ha preannunciato la contestazione di una nuova aggravante a Mancino. Il pm ha anticipato la nuova aggravante prendendo la parola in aula, ma non ha avuto il tempo di specificare di quale aggravante si tratti perché il presidente della Corte lo ha interrotto, spiegando che non era quello il momento per procedere alla contestazione.
Massimo Ciancimino è accusato anche di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia. L’ex ministro Dc Calogero Mannino ha chiesto e ottenuto di essere processato col rito abbreviato. È stata invece stralciata la posizione di Bernardo Provenzano, dopo che i periti hanno escluso la sua capacità di partecipare al processo, a causa delle sue condizioni psichiche compromesse in parte da una forma di Alzheimer e in parte dall’intervento per la rimozione di un ematoma cerebrale che il boss si era procurato cadendo in cella. Il pm Antonio Di Matteo: “Quando la verità dovesse riguardare elementi di colpevolezza a carico dello Stato, lo Stato non può nascondere eventuali sue responsabilità sotto il tappeto”.
Minacce a Di Matteo, pm della trattativa
Tranne Mancino (falsa testimonianza) e Ciancimino, che veste i panni del testimone e dell’imputato, ed è accusato di concorso in associazione mafiosa e calunnia all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, per gli altri le accuse sono di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. Inizialmente il processo venne chiesto anche per il boss Bernardo Provenzano e per l’ex ministro Calogero Mannino. La posizione del padrino di Corleone, però, è stata stralciata e pende ancora davanti al gup perché, per i periti, il capomafia non è in grado di partecipare coscientemente al processo. Mannino, invece, ha scelto l’abbreviato.
Il rinvio a giudizio fu disposto il 7 marzo dal gup Piergiorgio Morosini. La “storia” della trattativa, come il giudice la raccontò nel suo provvedimento, parte dalle aspettative deluse sul maxiprocesso, con la conferma degli ergastoli ai vertici dei clan. Da qui il tentativo di Cosa nostra di chiudere i conti con chi riteneva responsabile di quella debacle giudiziaria e la ricerca di nuovi referenti politici. La mafia avrebbe cercato di condizionare le istituzioni con le stragi e stringere alleanze con massoneria deviata, frange della destra eversiva, gruppi indipendentisti, per dare vita a un piano eversivo condotto a colpi di attentati rivendicati dalla Falange Armata.
Trattativa, depone De Gennaro
Il primo atto del progetto sarebbe stato l’omicidio dell’eurodeputato Dc Salvo Lima. Poi arrivò l’allarme attentati a una serie di politici. E qui sarebbe entrato in gioco l’ex ministro Calogero Mannino che, per salvarsi la vita, attraverso il capo del Ros Antonio Subranni, avrebbe stimolato l’inizio di una trattativa. La storia sarebbe proseguita con i contatti tra gli ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, il papello con le richieste del boss Totò Riina per fare cessare le stragi, l’ingresso nella trattativa del capomafia Bernardo Provenzano.
Il dialogo avrebbe dato i suoi frutti con la decisione dello Stato, nel 1993, di revocare oltre 334 41-bis. Ma l’ammorbidimento della linea sul regime carcerario non sarebbe bastato ai boss e la trattativa sarebbe proseguita con altri protagonisti, come Dell’Utri “portatore” della minaccia mafiosa a Silvio Berlusconi che di lì a poco sarebbe diventato premier. Nella storia entra anche l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino: avrebbe detto il falso negando di avere saputo dall’allora Guardasigilli Claudio Martelli dei contatti tra il Ros e Ciancimino. “Mai fatta falsa testimonianza”, ha sempre replicato l’ex politico Dc.
A sostenere l’accusa in giudizio saranno il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. La Procura ha citato 178 testimoni tra i quali il capo dello Stato Giorgio Napolitano e il presidente del Senato Piero Grasso.
Lo striscione. Uno striscione a sostegno di Agnese Borsellino è stato affisso questa mattina sulle grate dell’aula bunker. La vedova del magistrato, morta tre settimane fa, chiedeva “verità e giustizia” per l’assassinio del marito Paolo, ucciso nella strage di via D’Amelio. Secondo i magistrati Borsellino sarebbe stato ucciso proprio perché seppe della trattativa.
“Per la prima volta la Stato processa altri pezzi dello Stato. Sembrava una cosa impossibile, invece sta avvenendo. Ho fiducia nei magistrati e nel processo e il dato di partenza è che la trattativa non è più ritenuta fumosa o fantomatica. C’è stata”, ha detto Salvatore Borsellino che ha ricevuto le condoglianze per la morte di Agnese da Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo.
Nicola Mancino. “Ho fiducia e speranza che venga fatta giustizia, ed io esca dal processo”, ha detto l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, arrivando nell’aula bunker. L’ex ministro dell’interno è chiamato a rispondere di falsa testimonianza. “Io ho combattuto i criminali – ha detto Mancino – Ho combattuto la mafia. Non posso stare insieme alla mafia in un processo”. Quindi Mancino ha ribadito che oggi il suo legale chiederà lo stralcio della sua posizione. “Che uno per falsa testimonianza debba stare in Corte d’assise – ha aggiunto – mi sembra un po’ troppo”.
La replica di Messineo. Per il procuratore di Palermo Francesco Messineo, la posizione dell’ex ministro “era già stata espressa in sede di udienza preliminare e sulla quale credo che ci sia stata già una pronuncia sia pure provvisoria. Ritengo che la difesa del senatore Mancino saprà svolgere egregiamente il suo compito proponendo quei temi che ritiene adeguati nell’interesse dell’assistito”. Quanto ad eventuali responsabilità di esponenti dello Stato, Messineo è stato netto: “Io rifuggo sempre da questo tipo di valutazioni generiche e moralistiche, qui stiamo celebrando un processo e non dobbiamo distribuire pagelle o encomi e neanche forme di rivalsa nei confronti del passato. Cerchiamo di chiarire i fatti, di accertarli e di trarne le conclusioni giuridiche”.
Parti civili. Il segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero, rappresenta il suo partito nell’aula bunker. Rifondazione si è già costituita parte civile nel corso dell’udienza preliminare per quello che considera “un vero e proprio tentativo di alterare l’azione politica democratica all’inizio degli anni ’90.
Anche la presidenza del Consiglio dei ministri, la Regione siciliana, il Comune di Palermo e l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, sono tra le parti civili già costituite nel processo. Nel corso dell’udienza preliminare, il Gup ha già ammesso come parti offese anche Rifondazione comunista, rappresentata oggi in aula dal segretario Paolo Ferrero, il movimento delle Agende rosse, il sindacato di polizia Coisp, l’Associazione vittime della mafia e l’associazione Cittadinanza per la magistratura. Davanti alla Corte di assise stamani ha fatto istanza di costituirsi l’associazione Libera di don Luigi Ciotti.
Hanno chiesto alla Corte di costituirsi parte civile anche la Regione Toscana, il Comune di Firenze, l’Associazione vittime dei Geoergofili e altre associazioni antimafia toscane.
BEATIFICAZIONE DON PINO PUGLISI, IL RICORDO DI DON LUIGI CIOTTI
«Era uno che non si era incanalato, che faceva di testa sua». «Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada… Martellava e rompeva le scatole».
Queste parole di Gaspare Spatuzza e di Giovanni Drago, mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, basterebbero a spiegare, nella loro rozza schiettezza, perché don Pino Puglisi è stato ucciso.
Ma sono molto lontane dal dire chi davvero fosse don Pino Puglisi, da cosa nasce quel “rompere le scatole” che lo avrebbe esposto alla vendetta del crimine mafioso.
È quello che cerca di fare questo libro di Francesco Deliziosi. Libro bello e importante perché, con mirabile sintesi, riesce a fondere il “soggettivo” e l'”oggettivo”. Deliziosi scrive infatti sia in base alla conoscenza diretta – è stato amico e allievo di Puglisi – sia in base a una profonda, rigorosa documentazione (ha fatto parte, tra l’altro, della commissione preposta a raccogliere il materiale per avviare il processo di beatificazione di Puglisi).
Chi era dunque don Puglisi?
Del ritratto di Deliziosi mi hanno colpito alcuni aspetti e di questi vorrei parlare. Con un’avvertenza, però. Isolare questi aspetti senza coglierne la profonda continuità sarebbe un grave errore di prospettiva. Come tutte le persone restie a fare della propria coscienza un luogo di eterna mediazione e contrattazione, Puglisi imprimeva a tutto ciò che faceva il senso della ricerca e del bisogno di verità. Se era un “rompiscatole”, era perché le scatole le rompeva innanzitutto a se stesso, perché non si accontentava di “fare”, ma voleva fare bene, con rigore, coerenza e serietà.
Il primo aspetto che salta agli occhi è quello dell’educatore. Don Puglisi aveva – lo dicono in tanti – un talento raro nell’educare. Il che significa che il suo insegnamento era fondato sull’ascolto e sul comportamento, più che sulle parole. Non gli interessava tanto trasmettere nozioni, quanto che le persone diventassero capaci di scegliere con coscienza e responsabilità. Ossia che fossero libere. In questo senso, educare per lui era davvero accompagnare ciascuno a scoprire la propria diversità, con pazienza e delicatezza, senza pressioni né condizionamenti, stimolando quel confronto con le grandi domande della vita senza il quale la nostra libertà è ridotta a capriccio, arbitrio, semplice sfogo di impulsi.
Che tutto ciò portasse a esiti diversi dall’abbracciare la fede, non era affatto per don Puglisi segno di sconfitta. Per lui contava che le persone imparassero lo stupore e la conoscenza, capissero che è l’io in funzione della vita e non la vita in funzione dell’io. In quella dimensione avrebbero trovato, anche da laici, il loro modo di credere e di vivere. «Nessun uomo è lontano dal Signore – scrisse un giorno meravigliosamente – Lui è vicino, senz’altro, ma il Signore ama la libertà. Non impone il Suo amore, non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta».
Questa ricchezza umana e apertura di vedute don Pino la portò anche dentro la Chiesa. Ancora giovane, negli anni Sessanta trovò nel Concilio la risposta ai sentimenti e alle intuizioni che turbavano il suo cuore. E se la Unitatis Redintegratio del 1964 sottolinea che «la Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno», la vita di don Puglisi sembra incarnare questo spirito inquieto, teso a una continua riforma di sé, disposto ad accettare con fiducia e coraggio le sfide anche ardue che gli si pongono innanzi.
Così quando questo vivere la fede ritenuto da alcuni troppo “moderno” costa al giovane prete il trasferimento a Godrano, paesino di mille abitanti a circa 40 chilometri da Palermo, don Pino non si scompone più di tanto. E agli amici che protestano contro un provvedimento sentito come una punizione, risponde col suo sorriso mite: «Non sono figli di Dio anche questi uomini di Godrano?».
Inevitabile il richiamo alle parole che don Milani scrisse alla madre da Barbiana: «Non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, e neanche le possibilità di fare del bene si misurano sul numero dei parrocchiani».
Le due situazioni presentano però una differenza di fondo. Se infatti a Barbiana don Lorenzo trova una comunità da condurre con totale dedizione sul cammino della conoscenza e del riscatto sociale, a Godrano don Pino s’imbatte in una realtà chiusa, diffidente, segnata da una lunga e sanguinosa faida fra famiglie. In quel paesino incastonato nelle Madonie sperimenta sulla propria pelle la forza di una mentalità – quella della vendetta e di un malinteso senso dell’onore – che, anche quando è strettamente legata alla mafia, le offre un terreno fertile per radicarsi. E che può trovare indiretta sponda in forme di religiosità confinate nel «chiuso della sacrestia e di pratiche devozionali e bigotte». Per don Pino, tuttavia, è una ragione di più per rimboccarsi le maniche, e anche a Godrano saprà stanare la speranza in cuori induriti dall’odio e dal pregiudizio, suscitando negli adulti il desiderio del perdono e della riconciliazione, nei giovani un’idea di convivenza non riducibile alle mura di casa o all’appartenenza al proprio clan.
Ecco allora che il rientro a Palermo e il successivo ritorno nella natia Brancaccio sono per Pino l’occasione per continuare con maggior forza il cammino intrapreso: da un lato i percorsi educativi – «perché con i bambini e gli adolescenti si è ancora in tempo» – dall’altro il concepire la parrocchia, prima che come un luogo di culto, come uno strumento di promozione umana e sociale, strumento di una Chiesa più aperta, più “periferica”, più vicina ai poveri, più attenta alle questioni sociali. I cui pastori non dimenticano certo la dottrina, ma sanno che essa non può sostituire la costruzione del bene e la ricerca impervia della verità. «Il sacerdote di domani – ha scritto Karl Rhaner, il grande teologo conciliare che fu uno dei riferimenti di Puglisi – sarà un uomo che sopporta la pesante oscurità dell’esistenza con i suoi fratelli e sorelle. Il sacerdote di domani non sarà colui che deriva la propria forza dal prestigio sociale della Chiesa, ma che avrà il coraggio di far sua la non-forza della Chiesa».
Il libro racconta nei dettagli le tante iniziative che questo piccolo grande prete ha saputo mettere in piedi negli anni del suo ritorno a Palermo, il suo affanno e la sua costante rincorsa al tempo, rubato al sonno e perfino al cibo (se non riusciva quasi mai a essere puntuale, don Puglisi, era perché prima lo era stato con tante, con troppe persone…). Racconta il suo caricarsi delle speranze e delle istanze di giustizia di tanta gente ma anche il suo promuovere l’impegno collettivo, la collaborazione con altre realtà ecclesiali e civili, perché «se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto».
E ci si chiede, leggendo queste pagine, come un’attività così frenetica e incisiva (e tuttavia discreta: Puglisi era un uomo schivo, che rifuggiva ogni protagonismo) potesse non finire nelle mire dei boss e di quanti vogliono mantenere le comunità sotto una cappa d’ignoranza, di miseria, di fatalismo. Mire – duole dirlo – che si sono avvalse nel passato anche di sottovalutazioni e perfino compromissioni in ambito ecclesiastico, prima che le nette parole di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i martirî di don Puglisi e di don Peppe Diana, evidenziassero l’incompatibilità della mafia con lo spirito del Vangelo, con l’amore di Gesù per i poveri, i miti, i perseguitati.
Molti hanno cercato di dare una definizione all’attività pastorale di don Pino. Nel mio piccolo voglio sottolineare come la definizione “prete antimafia” sia sbagliata non solo perché ogni definizione, sia pure attribuita con le migliori intenzioni, impoverisce la complessità di una vita. Ma perché Puglisi aveva capito che il problema non è tanto la mafia come organizzazione criminale (se così fosse basterebbero la magistratura e le forze di polizia) quanto la mafiosità, il mare dentro cui nuota il pesce mafioso. L’assassinio di don Pino Puglisi ci ricorda che sconfiggeremo le mafie solo quando saremo capaci di fare pulizia attorno e dentro di noi, quando supereremo gli egoismi, i favoritismi, i privilegi e l’inevitabile corruzione che questo modo d’intendere la vita porta con sé. Solo quando avremo il coraggio di riconoscere anche le nostre responsabilità, responsabilità non solo dirette ma indirette, riferibili a quel peccato di omissione che consiste nell’interpretare in modo restrittivo e puramente formale il nostro ruolo di cittadini.
In tal senso la beatificazione di don Pino Puglisi è, paradossalmente, una “spina nel fianco” per tutti noi. Non solo per una Chiesa chiamata più che mai, nell’attuale crisi mondiale, a saldare il Cielo e la Terra, la dimensione spirituale con l’impegno per la giustizia sociale. Ma per chiunque, cristiano o laico, si senta chiamato a contribuire alla costruzione della speranza già a partire da questo mondo.
don Luigi Ciotti
Prefazione scritta da don Luigi Ciotti al libro “Pino Puglisi il prete che fece tremare la mafia”