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Indagine su presunti accordi STATO – MAFIA

Processo Stato-Mafia, Di Matteo in pericolo

E’ il pm di punta nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Una fonte che si muove tra i servizi e Cosa Nostra ha avvertito che la sua vita è in pericolo. E la scorta non ha i mezzi per difenderlo.

Una relazione di servizio riservata, consegnata al reparto scorte dell’Arma dei carabinieri, avverte: le misure di protezione per Nino Di Matteo, il pm di punta del processo sulla trattativa Stato-mafia, hanno delle falle che mettono a rischio la sicurezza del magistrato e della sua scorta, tutta composta da carabinieri.L’allarme per l’incolumità del magistrato di Palermo è alto da tempo, ma è diventato altissimo dagli inizi di aprile, dopo una lettera anonima che allertava Di Matteo: è in fase organizzativa un attentato simile a quello costato la vita a Paolo Borsellino il 19 luglio del 1992. Stavolta, nel mirino di Cosa nostra “e degli amici romani di Matteo” (il superlatitante di Castelvetrano, Messina Denaro, ndr), ci sono Di Matteo e i carabinieri della sua scorta, spiati nei loro movimenti per più di un mese dai “picciotti” della mafia.

La relazione, consegnata al reparto dell’Arma che si occupa della tutela delle “personalità a rischio”, ha aggiornato ad una decina di giorni fa lo stato delle cose. I carabinieri che scortano il magistrato non hanno armi adeguate per rispondere al progettato attacco di cui parla l’anonimo, un personaggio che sembra graviti in quell’area indefinita tra servizi segreti infedeli e mafiosi. E non sono neanche dotati di un’apparecchiatura sofisticata ma efficace, il “bomb jammer”, una valigetta scanner che neutralizza i telecomandi utilizzati per innescare ordigni esplosivi. Una misura di difesa preventiva su cui ha puntato l’attenzione, pochi giorni fa, anche Salvatore Borsellino, l’ingegnere fratello del magistrato Paolo, e fondatore del movimento “Agende Rosse” che si batte perché la sicurezza di Di Matteo non venga affrontata in modo “burocratico”.

L’anonimo che ha scritto segnalando la decisione di Cosa nostra di organizzare un attentato contro Di Matteo e “un magistrato palermitano che lavora a Caltanissetta”, ha già dimostrato di avere informazioni di prima mano: ha segnalato ai pm della Procura antimafia di Palermo il caso della sparizione di documenti dalla borsa del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa subito dopo il suo omicidio. Una circostanza che è stata riscontrata e si è rivelata esatta.

 Racconta il sitowww.antimafiaduemila.com: “La protezione di Di Matteo non è mai passata dall’attuale livello 2 al livello 1, il massimo sistema di protezione esistente. Le forze impiegate per tutelare il pubblico ministero palermitano comprendevano l’assegnazione di due macchine blindate con cinque uomini armati, e una macchina che si occupi della bonifica lungo il tragitto percorso per verificare la presenza di eventuali ordigni. Il potenziamento è solo apparente, in quanto ci si è limitati ad aggiungere altri due uomini armati e una macchina non blindata, che quindi può essere facilmente annientata da un eventuale attentato anche con pistole e mitragliatrici”.

Un grido d’allarme che non può passare inosservato. Tra i carabinieri addetti alla protezione di Di Matteo, tra l’altro, ce n’è uno che nei giorni scorsi ha denunciato in un esposto di essere stato bloccato dai suoi superiori nelle indagini che avrebbero potuto portare alla cattura di Matteo Messina Denaro: si chiama Saverio Masi ed è il caposcorta del magistrato. Masi aveva visto a Bagheria, nel 2004, il boss di Castelvetrano avvicinarsi ad una villetta poi risultata di proprietà di un professionista in qualche modo legato al boss Giuseppe Guttadauro, imparentato con Messina Denaro.

In un esposto diretto alla procura di Palermo, Masi ha raccontato che i suoi superiori gli dissero: “Non hai capito niente allora? Lo vuoi capire o no che ti devi fermare? Hai finito di fare il finto coglione?”. Stessa linea subita anni prima quando Masi, era il 2001, individuò un contatore dell’Enel, all’indomani della cattura del boss Benedetto Spera a Belmonte Mezzagno, che forniva elettricità ad un casolare apparentemente disabitato e dove poi si è scoperto era nascosto Bernardo Provenzano. Giorni fa un altro carabiniere, il luogotenente Salvatore Fiducia, ha messo a verbale la sua denuncia: anche lui è stato ostacolato dai superiori nelle indagini che avrebbero potuto portare a “Binnu” Provenzano, l’allora latitante capo di Cosa nostra propenso alla linea del “dialogo” con lo Stato.

Processo STATO-MAFIA

Si è aperto il dibattito di uno dei casi giudiziari più complessi e contraddittori. Dieci gli imputati: i capimafia Riina, Bagarella, Cinà, gli ex ufficiali del Ros Subranni, Mori e De Donno, il pentito Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino. Poi ex politici come Dell’Utri e l’ex presidente del Senato che ribadisce: “Non posso stare in aula con i boss”. Il pm Di Matteo: “Lo Stato non può nascondere le sue responsabilità”
Si è aperto questa mattina il processo per la trattativa Stato-mafia davanti alla Corte di assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto. Giudice a latere è Stefani Brambille. L’accusa è rappresentata in aula dal procuratore Francesco Messineo, dall’aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Tartaglia, Di Matteo e Del Bene. Dopo la presentazione delle richieste di costituzione delle parti civili, il processo è stato rinviato a venerdì. Lo ha deciso il presidente Montalto accogliendo una richiesta del pm, che ha fatto presente di aver bisogno di un termine prima di esprimere il proprio parere sulle domande di costituzione di parte civile, dato l’alto numero delle istanze.

Hanno chiesto di costituirsi parte civile il Comune e la Provincia di Firenze e la Regione Toscana. Alle dieci parti civili già ammesse potrebbero aggiungersi quindi altri soggetti processuali se i giudici accogliessero le istanze. Stessa richiesta è stata fatta dai familiari dell’eurodeputato Salvo Lima, ucciso dalla mafia nel 1992, dal comitato Addiopizzo, l’associazione dei familiari delle vittime della strage dei Georgofili, l’associazione Carlo Catena, l’associazione antiracket Libere Terre, l’associazione nazionale Testimoni di Giustizia, Libera, l’associazione antimafia Riferimenti, l’associazione nazionale Giuristi Democratici e il Comune di Campofelice di Roccella.

Grasso. “Sono testimone, non posso che dichiarare al processo quello che so”. Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano un commento a quanto sta accadendo a Palermo con l’apertura del processo sulla trattativa Stato-mafia. Grasso oggi è a Firenze per il 20/o anniversario della strage di via dei Georgofili.

Si sino presentati in aula, tra gli imputati, l’ex ministro Nicola Mancino, l’ex comandante del Ros Antonio Subranni e Massimo Ciancimino.


L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino saluta l’ex generale Antonio Subranni (ansa)

Con loro, il gup Piergiorgio Morosini lo scorso 7 marzo ha rinviato a giudizio per “attentato mediante violenza o minaccia a un corpo politico, giudiziario o amministrativo dello Stato, aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra”, i boss Totò Riina, Leoluca Bagarella e Nino Cinà, l’ex pentito Giovanni Brusca, l’ex generale del Ros Mario Mori, l’ex colonnello Giuseppe De Donno e l’ex senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. Riina e gli altri tre mafiosi sono stati collegati in videoconferenza con l’aula bunker.
Mancino risponde solo di falsa testimonianza e ha ribadito che il suo legale chiede lo stralcio della sua posizione: “Non posso stare nello stesso processo in cui c’è la mafia”, ha detto l’ex ministro prima dell’inizio dell’udienza. Ma la Procura ha preannunciato la contestazione di una nuova aggravante a Mancino. Il pm ha anticipato la nuova aggravante prendendo la parola in aula, ma non ha avuto il tempo di specificare di quale aggravante si tratti perché il presidente della Corte lo ha interrotto, spiegando che non era quello il momento per procedere alla contestazione.

Massimo Ciancimino è accusato anche di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia. L’ex ministro Dc Calogero Mannino ha chiesto e ottenuto di essere processato col rito abbreviato. È stata invece stralciata la posizione di Bernardo Provenzano, dopo che i periti hanno escluso la sua capacità di partecipare al processo, a causa delle sue condizioni psichiche compromesse in parte da una forma di Alzheimer e in parte dall’intervento per la rimozione di un ematoma cerebrale che il boss si era procurato cadendo in cella. Il pm Antonio Di Matteo: “Quando la verità dovesse riguardare elementi di colpevolezza a carico dello Stato, lo Stato non può nascondere eventuali sue responsabilità sotto il tappeto”.

Minacce a Di Matteo, pm della trattativa

Tranne Mancino (falsa testimonianza) e Ciancimino, che veste i panni del testimone e dell’imputato, ed è accusato di concorso in associazione mafiosa e calunnia all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, per gli altri le accuse sono di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. Inizialmente il processo venne chiesto anche per il boss Bernardo Provenzano e per l’ex ministro Calogero Mannino. La posizione del padrino di Corleone, però, è stata stralciata e pende ancora davanti al gup perché, per i periti, il capomafia non è in grado di partecipare coscientemente al processo. Mannino, invece, ha scelto l’abbreviato.

Il rinvio a giudizio fu disposto il 7 marzo dal gup Piergiorgio Morosini. La “storia” della trattativa, come il giudice la raccontò nel suo provvedimento, parte dalle aspettative deluse sul maxiprocesso, con la conferma degli ergastoli ai vertici dei clan. Da qui il tentativo di Cosa nostra di chiudere i conti con chi riteneva responsabile di quella debacle giudiziaria e la ricerca di nuovi referenti politici. La mafia avrebbe cercato di condizionare le istituzioni con le stragi e stringere alleanze con massoneria deviata, frange della destra eversiva, gruppi indipendentisti, per dare vita a un piano eversivo condotto a colpi di attentati rivendicati dalla Falange Armata.

Trattativa, depone De Gennaro

Il primo atto del progetto sarebbe stato l’omicidio dell’eurodeputato Dc Salvo Lima. Poi arrivò l’allarme attentati a una serie di politici. E qui sarebbe entrato in gioco l’ex ministro Calogero Mannino che, per salvarsi la vita, attraverso il capo del Ros Antonio Subranni, avrebbe stimolato l’inizio di una trattativa. La storia sarebbe proseguita con i contatti tra gli ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, il papello con le richieste del boss Totò Riina per fare cessare le stragi, l’ingresso nella trattativa del capomafia Bernardo Provenzano.

Il dialogo avrebbe dato i suoi frutti con la decisione dello Stato, nel 1993, di revocare oltre 334 41-bis. Ma l’ammorbidimento della linea sul regime carcerario non sarebbe bastato ai boss e la trattativa sarebbe proseguita con altri protagonisti, come Dell’Utri “portatore” della minaccia mafiosa a Silvio Berlusconi che di lì a poco sarebbe diventato premier. Nella storia entra anche l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino: avrebbe detto il falso negando di avere saputo dall’allora Guardasigilli Claudio Martelli dei contatti tra il Ros e Ciancimino. “Mai fatta falsa testimonianza”, ha sempre replicato l’ex politico Dc.

A sostenere l’accusa in giudizio saranno il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. La Procura ha citato 178 testimoni tra i quali il capo dello Stato Giorgio Napolitano e il presidente del Senato Piero Grasso.

Lo striscione. Uno striscione a sostegno di Agnese Borsellino è stato affisso questa mattina sulle grate dell’aula bunker. La vedova del magistrato, morta tre settimane fa, chiedeva “verità e giustizia” per l’assassinio del marito Paolo, ucciso nella strage di via D’Amelio. Secondo i magistrati Borsellino sarebbe stato ucciso proprio perché seppe della trattativa.

“Per la prima volta la Stato processa altri pezzi dello Stato. Sembrava una cosa impossibile, invece sta avvenendo. Ho fiducia nei magistrati e nel processo e il dato di partenza è che la trattativa non è più ritenuta fumosa o fantomatica. C’è stata”, ha detto Salvatore Borsellino che ha ricevuto le condoglianze per la morte di Agnese da Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo.

Nicola Mancino. “Ho fiducia e speranza che venga fatta giustizia, ed io esca dal processo”, ha detto l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, arrivando nell’aula bunker. L’ex ministro dell’interno è chiamato a rispondere di falsa testimonianza. “Io ho combattuto i criminali – ha detto Mancino – Ho combattuto la mafia. Non posso stare insieme alla mafia in un processo”. Quindi Mancino ha ribadito che oggi il suo legale chiederà lo stralcio della sua posizione. “Che uno per falsa testimonianza debba stare in Corte d’assise – ha aggiunto – mi sembra un po’ troppo”.

La replica di Messineo. Per il procuratore di Palermo Francesco Messineo, la posizione dell’ex ministro “era già stata espressa in sede di udienza preliminare e sulla quale credo che ci sia stata già una pronuncia sia pure provvisoria. Ritengo che la difesa del senatore Mancino saprà svolgere egregiamente il suo compito proponendo quei temi che ritiene adeguati nell’interesse dell’assistito”. Quanto ad eventuali responsabilità di esponenti dello Stato, Messineo è stato netto: “Io rifuggo sempre da questo tipo di valutazioni generiche e moralistiche, qui stiamo celebrando un processo e non dobbiamo distribuire pagelle o encomi e neanche forme di rivalsa nei confronti del passato. Cerchiamo di chiarire i fatti, di accertarli e di trarne le conclusioni giuridiche”.

Parti civili. Il segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero, rappresenta il suo partito nell’aula bunker. Rifondazione si è già costituita parte civile nel corso dell’udienza preliminare per quello che considera “un vero e proprio tentativo di alterare l’azione politica democratica all’inizio degli anni ’90.

Anche la presidenza del Consiglio dei ministri, la Regione siciliana, il Comune di Palermo e l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, sono tra le parti civili già costituite nel processo. Nel corso dell’udienza preliminare, il Gup ha già ammesso come parti offese anche Rifondazione comunista, rappresentata oggi in aula dal segretario Paolo Ferrero, il movimento delle Agende rosse, il sindacato di polizia Coisp, l’Associazione vittime della mafia e l’associazione Cittadinanza per la magistratura. Davanti alla Corte di assise stamani ha fatto istanza di costituirsi l’associazione Libera di don Luigi Ciotti.

Hanno chiesto alla Corte di costituirsi parte civile anche la Regione Toscana, il Comune di Firenze, l’Associazione vittime dei Geoergofili e altre associazioni antimafia toscane.


L’ex ministro Nicola Mancino sul banco degli imputati

Salvatore Borsellino tra il pubblico