Archivio mensile:Maggio 2013

PROSSIMI APPUNTAMENTI


Presentazione del libro Le fondamenta della città

Giovedì 30 maggio
h 18.00 – 20.00, Libreria La Torre di Abele, via Pietro Micca 22, Torino
Giuseppe Gennari, magistrato esperto in criminalità organizzata, spiega nel suo libro, edito Mondandori, come il Nord Italia abbia aperto le porte alla ‘ndrangheta”. Per la presentazione interverranno con l’autore Gian Carlo Caselli e Gianni Barbacetto.

Festa dei Vicini nelle comunità di Acmos

Sabato 1 giugno
In tutte le Comunità di Acmos
Le Comunità di Acmos, impegnate in progetti di cohousing, festeggeranno la Festa dei Vicini. Manifestazione organizzata a livello europeo, quest’anno sarà dedicata alla lotta allo spreco alimentare. I ragazzi delle Comunità organizzeranno eventi con i propri vicini.


Conclusione della Campagna per la Cittadinanza dei GEC

Domenica 2 giugno
h 9.00, Via Martini 4/B, Casa Umanista, Torino
Intitolata “Occupa la Repubblica”, la campagna per la cittadinanza di Acmos si conclude. Dedicata alla lotta all’astensionismo, i giovani dei GEC di Acmos si ritrovano per portare in plenaria i risultati del percorso di approfondimento e discussione portati avanti nel corso dell’anno.


Eating city

Domenica 2 giugno
h 12.00, piazza Vittorio, Torino
Un pranzo gratuito per 3000 persone realizzato con gli “scarti” derivanti dal commercio alimentare della Provincia di Torino. Una giornata dedicata al cibo, alla lotta agli sprechi, al dialogo, ma anche un’occasione per stare insieme e per acquistare prodotti locali e di Libera Terra.L’iniziativa è inserita nel calendario di Smart City days e organizzata da Risteco in collaborazione con: Cooperativa Nanà, Last Minute Market, Coldiretti, Festival Cinemambiente. Auchan, Smat, Amiat, IREN Energia, Istituto Zooprofillattico, Sotral, Camst, Compass Group, Agrocompany, Ecozema.

Processo STATO-MAFIA

Si è aperto il dibattito di uno dei casi giudiziari più complessi e contraddittori. Dieci gli imputati: i capimafia Riina, Bagarella, Cinà, gli ex ufficiali del Ros Subranni, Mori e De Donno, il pentito Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino. Poi ex politici come Dell’Utri e l’ex presidente del Senato che ribadisce: “Non posso stare in aula con i boss”. Il pm Di Matteo: “Lo Stato non può nascondere le sue responsabilità”
Si è aperto questa mattina il processo per la trattativa Stato-mafia davanti alla Corte di assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto. Giudice a latere è Stefani Brambille. L’accusa è rappresentata in aula dal procuratore Francesco Messineo, dall’aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Tartaglia, Di Matteo e Del Bene. Dopo la presentazione delle richieste di costituzione delle parti civili, il processo è stato rinviato a venerdì. Lo ha deciso il presidente Montalto accogliendo una richiesta del pm, che ha fatto presente di aver bisogno di un termine prima di esprimere il proprio parere sulle domande di costituzione di parte civile, dato l’alto numero delle istanze.

Hanno chiesto di costituirsi parte civile il Comune e la Provincia di Firenze e la Regione Toscana. Alle dieci parti civili già ammesse potrebbero aggiungersi quindi altri soggetti processuali se i giudici accogliessero le istanze. Stessa richiesta è stata fatta dai familiari dell’eurodeputato Salvo Lima, ucciso dalla mafia nel 1992, dal comitato Addiopizzo, l’associazione dei familiari delle vittime della strage dei Georgofili, l’associazione Carlo Catena, l’associazione antiracket Libere Terre, l’associazione nazionale Testimoni di Giustizia, Libera, l’associazione antimafia Riferimenti, l’associazione nazionale Giuristi Democratici e il Comune di Campofelice di Roccella.

Grasso. “Sono testimone, non posso che dichiarare al processo quello che so”. Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano un commento a quanto sta accadendo a Palermo con l’apertura del processo sulla trattativa Stato-mafia. Grasso oggi è a Firenze per il 20/o anniversario della strage di via dei Georgofili.

Si sino presentati in aula, tra gli imputati, l’ex ministro Nicola Mancino, l’ex comandante del Ros Antonio Subranni e Massimo Ciancimino.


L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino saluta l’ex generale Antonio Subranni (ansa)

Con loro, il gup Piergiorgio Morosini lo scorso 7 marzo ha rinviato a giudizio per “attentato mediante violenza o minaccia a un corpo politico, giudiziario o amministrativo dello Stato, aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra”, i boss Totò Riina, Leoluca Bagarella e Nino Cinà, l’ex pentito Giovanni Brusca, l’ex generale del Ros Mario Mori, l’ex colonnello Giuseppe De Donno e l’ex senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. Riina e gli altri tre mafiosi sono stati collegati in videoconferenza con l’aula bunker.
Mancino risponde solo di falsa testimonianza e ha ribadito che il suo legale chiede lo stralcio della sua posizione: “Non posso stare nello stesso processo in cui c’è la mafia”, ha detto l’ex ministro prima dell’inizio dell’udienza. Ma la Procura ha preannunciato la contestazione di una nuova aggravante a Mancino. Il pm ha anticipato la nuova aggravante prendendo la parola in aula, ma non ha avuto il tempo di specificare di quale aggravante si tratti perché il presidente della Corte lo ha interrotto, spiegando che non era quello il momento per procedere alla contestazione.

Massimo Ciancimino è accusato anche di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia. L’ex ministro Dc Calogero Mannino ha chiesto e ottenuto di essere processato col rito abbreviato. È stata invece stralciata la posizione di Bernardo Provenzano, dopo che i periti hanno escluso la sua capacità di partecipare al processo, a causa delle sue condizioni psichiche compromesse in parte da una forma di Alzheimer e in parte dall’intervento per la rimozione di un ematoma cerebrale che il boss si era procurato cadendo in cella. Il pm Antonio Di Matteo: “Quando la verità dovesse riguardare elementi di colpevolezza a carico dello Stato, lo Stato non può nascondere eventuali sue responsabilità sotto il tappeto”.

Minacce a Di Matteo, pm della trattativa

Tranne Mancino (falsa testimonianza) e Ciancimino, che veste i panni del testimone e dell’imputato, ed è accusato di concorso in associazione mafiosa e calunnia all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, per gli altri le accuse sono di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. Inizialmente il processo venne chiesto anche per il boss Bernardo Provenzano e per l’ex ministro Calogero Mannino. La posizione del padrino di Corleone, però, è stata stralciata e pende ancora davanti al gup perché, per i periti, il capomafia non è in grado di partecipare coscientemente al processo. Mannino, invece, ha scelto l’abbreviato.

Il rinvio a giudizio fu disposto il 7 marzo dal gup Piergiorgio Morosini. La “storia” della trattativa, come il giudice la raccontò nel suo provvedimento, parte dalle aspettative deluse sul maxiprocesso, con la conferma degli ergastoli ai vertici dei clan. Da qui il tentativo di Cosa nostra di chiudere i conti con chi riteneva responsabile di quella debacle giudiziaria e la ricerca di nuovi referenti politici. La mafia avrebbe cercato di condizionare le istituzioni con le stragi e stringere alleanze con massoneria deviata, frange della destra eversiva, gruppi indipendentisti, per dare vita a un piano eversivo condotto a colpi di attentati rivendicati dalla Falange Armata.

Trattativa, depone De Gennaro

Il primo atto del progetto sarebbe stato l’omicidio dell’eurodeputato Dc Salvo Lima. Poi arrivò l’allarme attentati a una serie di politici. E qui sarebbe entrato in gioco l’ex ministro Calogero Mannino che, per salvarsi la vita, attraverso il capo del Ros Antonio Subranni, avrebbe stimolato l’inizio di una trattativa. La storia sarebbe proseguita con i contatti tra gli ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, il papello con le richieste del boss Totò Riina per fare cessare le stragi, l’ingresso nella trattativa del capomafia Bernardo Provenzano.

Il dialogo avrebbe dato i suoi frutti con la decisione dello Stato, nel 1993, di revocare oltre 334 41-bis. Ma l’ammorbidimento della linea sul regime carcerario non sarebbe bastato ai boss e la trattativa sarebbe proseguita con altri protagonisti, come Dell’Utri “portatore” della minaccia mafiosa a Silvio Berlusconi che di lì a poco sarebbe diventato premier. Nella storia entra anche l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino: avrebbe detto il falso negando di avere saputo dall’allora Guardasigilli Claudio Martelli dei contatti tra il Ros e Ciancimino. “Mai fatta falsa testimonianza”, ha sempre replicato l’ex politico Dc.

A sostenere l’accusa in giudizio saranno il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. La Procura ha citato 178 testimoni tra i quali il capo dello Stato Giorgio Napolitano e il presidente del Senato Piero Grasso.

Lo striscione. Uno striscione a sostegno di Agnese Borsellino è stato affisso questa mattina sulle grate dell’aula bunker. La vedova del magistrato, morta tre settimane fa, chiedeva “verità e giustizia” per l’assassinio del marito Paolo, ucciso nella strage di via D’Amelio. Secondo i magistrati Borsellino sarebbe stato ucciso proprio perché seppe della trattativa.

“Per la prima volta la Stato processa altri pezzi dello Stato. Sembrava una cosa impossibile, invece sta avvenendo. Ho fiducia nei magistrati e nel processo e il dato di partenza è che la trattativa non è più ritenuta fumosa o fantomatica. C’è stata”, ha detto Salvatore Borsellino che ha ricevuto le condoglianze per la morte di Agnese da Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo.

Nicola Mancino. “Ho fiducia e speranza che venga fatta giustizia, ed io esca dal processo”, ha detto l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, arrivando nell’aula bunker. L’ex ministro dell’interno è chiamato a rispondere di falsa testimonianza. “Io ho combattuto i criminali – ha detto Mancino – Ho combattuto la mafia. Non posso stare insieme alla mafia in un processo”. Quindi Mancino ha ribadito che oggi il suo legale chiederà lo stralcio della sua posizione. “Che uno per falsa testimonianza debba stare in Corte d’assise – ha aggiunto – mi sembra un po’ troppo”.

La replica di Messineo. Per il procuratore di Palermo Francesco Messineo, la posizione dell’ex ministro “era già stata espressa in sede di udienza preliminare e sulla quale credo che ci sia stata già una pronuncia sia pure provvisoria. Ritengo che la difesa del senatore Mancino saprà svolgere egregiamente il suo compito proponendo quei temi che ritiene adeguati nell’interesse dell’assistito”. Quanto ad eventuali responsabilità di esponenti dello Stato, Messineo è stato netto: “Io rifuggo sempre da questo tipo di valutazioni generiche e moralistiche, qui stiamo celebrando un processo e non dobbiamo distribuire pagelle o encomi e neanche forme di rivalsa nei confronti del passato. Cerchiamo di chiarire i fatti, di accertarli e di trarne le conclusioni giuridiche”.

Parti civili. Il segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero, rappresenta il suo partito nell’aula bunker. Rifondazione si è già costituita parte civile nel corso dell’udienza preliminare per quello che considera “un vero e proprio tentativo di alterare l’azione politica democratica all’inizio degli anni ’90.

Anche la presidenza del Consiglio dei ministri, la Regione siciliana, il Comune di Palermo e l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, sono tra le parti civili già costituite nel processo. Nel corso dell’udienza preliminare, il Gup ha già ammesso come parti offese anche Rifondazione comunista, rappresentata oggi in aula dal segretario Paolo Ferrero, il movimento delle Agende rosse, il sindacato di polizia Coisp, l’Associazione vittime della mafia e l’associazione Cittadinanza per la magistratura. Davanti alla Corte di assise stamani ha fatto istanza di costituirsi l’associazione Libera di don Luigi Ciotti.

Hanno chiesto alla Corte di costituirsi parte civile anche la Regione Toscana, il Comune di Firenze, l’Associazione vittime dei Geoergofili e altre associazioni antimafia toscane.


L’ex ministro Nicola Mancino sul banco degli imputati

Salvatore Borsellino tra il pubblico



Don Puglisi BEATIFICATO


BEATIFICAZIONE DON PINO PUGLISI, IL RICORDO DI DON LUIGI CIOTTI

«Era uno che non si era incanalato, che faceva di testa sua». «Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada… Martellava e rompeva le scatole».
Queste parole di Gaspare Spatuzza e di Giovanni Drago, mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, basterebbero a spiegare, nella loro rozza schiettezza, perché don Pino Puglisi è stato ucciso.
Ma sono molto lontane dal dire chi davvero fosse don Pino Puglisi, da cosa nasce quel “rompere le scatole” che lo avrebbe esposto alla vendetta del crimine mafioso.
È quello che cerca di fare questo libro di Francesco Deliziosi. Libro bello e importante perché, con mirabile sintesi, riesce a fondere il “soggettivo” e l'”oggettivo”. Deliziosi scrive infatti sia in base alla conoscenza diretta – è stato amico e allievo di Puglisi – sia in base a una profonda, rigorosa documentazione (ha fatto parte, tra l’altro, della commissione preposta a raccogliere il materiale per avviare il processo di beatificazione di Puglisi).
Chi era dunque don Puglisi?
Del ritratto di Deliziosi mi hanno colpito alcuni aspetti e di questi vorrei parlare. Con un’avvertenza, però. Isolare questi aspetti senza coglierne la profonda continuità sarebbe un grave errore di prospettiva. Come tutte le persone restie a fare della propria coscienza un luogo di eterna mediazione e contrattazione, Puglisi imprimeva a tutto ciò che faceva il senso della ricerca e del bisogno di verità. Se era un “rompiscatole”, era perché le scatole le rompeva innanzitutto a se stesso, perché non si accontentava di “fare”, ma voleva fare bene, con rigore, coerenza e serietà.
Il primo aspetto che salta agli occhi è quello dell’educatore. Don Puglisi aveva – lo dicono in tanti – un talento raro nell’educare. Il che significa che il suo insegnamento era fondato sull’ascolto e sul comportamento, più che sulle parole. Non gli interessava tanto trasmettere nozioni, quanto che le persone diventassero capaci di scegliere con coscienza e responsabilità. Ossia che fossero libere. In questo senso, educare per lui era davvero accompagnare ciascuno a scoprire la propria diversità, con pazienza e delicatezza, senza pressioni né condizionamenti, stimolando quel confronto con le grandi domande della vita senza il quale la nostra libertà è ridotta a capriccio, arbitrio, semplice sfogo di impulsi.
Che tutto ciò portasse a esiti diversi dall’abbracciare la fede, non era affatto per don Puglisi segno di sconfitta. Per lui contava che le persone imparassero lo stupore e la conoscenza, capissero che è l’io in funzione della vita e non la vita in funzione dell’io. In quella dimensione avrebbero trovato, anche da laici, il loro modo di credere e di vivere. «Nessun uomo è lontano dal Signore – scrisse un giorno meravigliosamente – Lui è vicino, senz’altro, ma il Signore ama la libertà. Non impone il Suo amore, non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta».
Questa ricchezza umana e apertura di vedute don Pino la portò anche dentro la Chiesa. Ancora giovane, negli anni Sessanta trovò nel Concilio la risposta ai sentimenti e alle intuizioni che turbavano il suo cuore. E se la Unitatis Redintegratio del 1964 sottolinea che «la Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno», la vita di don Puglisi sembra incarnare questo spirito inquieto, teso a una continua riforma di sé, disposto ad accettare con fiducia e coraggio le sfide anche ardue che gli si pongono innanzi.
Così quando questo vivere la fede ritenuto da alcuni troppo “moderno” costa al giovane prete il trasferimento a Godrano, paesino di mille abitanti a circa 40 chilometri da Palermo, don Pino non si scompone più di tanto. E agli amici che protestano contro un provvedimento sentito come una punizione, risponde col suo sorriso mite: «Non sono figli di Dio anche questi uomini di Godrano?».
Inevitabile il richiamo alle parole che don Milani scrisse alla madre da Barbiana: «Non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, e neanche le possibilità di fare del bene si misurano sul numero dei parrocchiani».
Le due situazioni presentano però una differenza di fondo. Se infatti a Barbiana don Lorenzo trova una comunità da condurre con totale dedizione sul cammino della conoscenza e del riscatto sociale, a Godrano don Pino s’imbatte in una realtà chiusa, diffidente, segnata da una lunga e sanguinosa faida fra famiglie. In quel paesino incastonato nelle Madonie sperimenta sulla propria pelle la forza di una mentalità – quella della vendetta e di un malinteso senso dell’onore – che, anche quando è strettamente legata alla mafia, le offre un terreno fertile per radicarsi. E che può trovare indiretta sponda in forme di religiosità confinate nel «chiuso della sacrestia e di pratiche devozionali e bigotte». Per don Pino, tuttavia, è una ragione di più per rimboccarsi le maniche, e anche a Godrano saprà stanare la speranza in cuori induriti dall’odio e dal pregiudizio, suscitando negli adulti il desiderio del perdono e della riconciliazione, nei giovani un’idea di convivenza non riducibile alle mura di casa o all’appartenenza al proprio clan.
Ecco allora che il rientro a Palermo e il successivo ritorno nella natia Brancaccio sono per Pino l’occasione per continuare con maggior forza il cammino intrapreso: da un lato i percorsi educativi – «perché con i bambini e gli adolescenti si è ancora in tempo» – dall’altro il concepire la parrocchia, prima che come un luogo di culto, come uno strumento di promozione umana e sociale, strumento di una Chiesa più aperta, più “periferica”, più vicina ai poveri, più attenta alle questioni sociali. I cui pastori non dimenticano certo la dottrina, ma sanno che essa non può sostituire la costruzione del bene e la ricerca impervia della verità. «Il sacerdote di domani – ha scritto Karl Rhaner, il grande teologo conciliare che fu uno dei riferimenti di Puglisi – sarà un uomo che sopporta la pesante oscurità dell’esistenza con i suoi fratelli e sorelle. Il sacerdote di domani non sarà colui che deriva la propria forza dal prestigio sociale della Chiesa, ma che avrà il coraggio di far sua la non-forza della Chiesa».
Il libro racconta nei dettagli le tante iniziative che questo piccolo grande prete ha saputo mettere in piedi negli anni del suo ritorno a Palermo, il suo affanno e la sua costante rincorsa al tempo, rubato al sonno e perfino al cibo (se non riusciva quasi mai a essere puntuale, don Puglisi, era perché prima lo era stato con tante, con troppe persone…). Racconta il suo caricarsi delle speranze e delle istanze di giustizia di tanta gente ma anche il suo promuovere l’impegno collettivo, la collaborazione con altre realtà ecclesiali e civili, perché «se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto».
E ci si chiede, leggendo queste pagine, come un’attività così frenetica e incisiva (e tuttavia discreta: Puglisi era un uomo schivo, che rifuggiva ogni protagonismo) potesse non finire nelle mire dei boss e di quanti vogliono mantenere le comunità sotto una cappa d’ignoranza, di miseria, di fatalismo. Mire – duole dirlo – che si sono avvalse nel passato anche di sottovalutazioni e perfino compromissioni in ambito ecclesiastico, prima che le nette parole di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i martirî di don Puglisi e di don Peppe Diana, evidenziassero l’incompatibilità della mafia con lo spirito del Vangelo, con l’amore di Gesù per i poveri, i miti, i perseguitati.
Molti hanno cercato di dare una definizione all’attività pastorale di don Pino. Nel mio piccolo voglio sottolineare come la definizione “prete antimafia” sia sbagliata non solo perché ogni definizione, sia pure attribuita con le migliori intenzioni, impoverisce la complessità di una vita. Ma perché Puglisi aveva capito che il problema non è tanto la mafia come organizzazione criminale (se così fosse basterebbero la magistratura e le forze di polizia) quanto la mafiosità, il mare dentro cui nuota il pesce mafioso. L’assassinio di don Pino Puglisi ci ricorda che sconfiggeremo le mafie solo quando saremo capaci di fare pulizia attorno e dentro di noi, quando supereremo gli egoismi, i favoritismi, i privilegi e l’inevitabile corruzione che questo modo d’intendere la vita porta con sé. Solo quando avremo il coraggio di riconoscere anche le nostre responsabilità, responsabilità non solo dirette ma indirette, riferibili a quel peccato di omissione che consiste nell’interpretare in modo restrittivo e puramente formale il nostro ruolo di cittadini.
In tal senso la beatificazione di don Pino Puglisi è, paradossalmente, una “spina nel fianco” per tutti noi. Non solo per una Chiesa chiamata più che mai, nell’attuale crisi mondiale, a saldare il Cielo e la Terra, la dimensione spirituale con l’impegno per la giustizia sociale. Ma per chiunque, cristiano o laico, si senta chiamato a contribuire alla costruzione della speranza già a partire da questo mondo.

don Luigi Ciotti

Prefazione scritta da don Luigi Ciotti al libro “Pino Puglisi il prete che fece tremare la mafia”

Beatificazione Don Puglisi

Per festeggiare la Beatificazione di Don Pino Puglisi, Libera Biella propone due eventi:
-ore 18,30 Santa Messa presso la Chiesa Parrocchiale di S.Stefano, Occhieppo Superiore
al termine faremo una lettura a “canone” dei nomi delle vittime innocenti di mafie.
-ore 21,00 MUSICA E PAROLE CONTRO LE MAFIE, sotto i portici del Comune di Biella, a cura dei ragazzi di Libera e del gruppo musicale “I Malarazza”

http://youtu.be/Z1Ful8DP7zI   documentario sulla figura di Don Puglisi

Pino Puglisi

Serata con Giovanni Impastato

Una bellissima serata! Trascorsa ad ascoltare racconti di vita REALE. di come un”piccolo” uomo abbia sfidato e VINTO un mostro come la MAFIA. Si, VINTO, perchè, anche se è stato ucciso, lui è ancora vivo ogni giorno nei racconti e nella memoria di quanti si sentono spinti a ricalcare le sue impronte
Voglio ancora includere un bel commento di uno dei partecipanti:”incredibili racconti di vita, emozioni, lotte e resistenze in nome della dignità umana, di cui la legalità è uno degli strumenti. Fa arrabbiare, qualcuno ha lottato per una nazione diversa, noi arranchiamo per un paese diverso. Ma la lotta è la stessa, eliminare l’indifferenza, che sia colorata di grigio piuttosto che di un evidente nero. Chi ci racconta che è inutile, costui dovrebbe suscitare più paura che il peggior boss mafioso, perchè vuol dire che ha perduto la volontà. Dalla storia alle nostre generazioni, da Cinisi ad Almese, per non dimenticare e per non rassegnarsi, Giovanni Impastato e con lui la sua famiglia”. Simone Piani, Magda Morelli-